venerdì 18 luglio 2014

Regalo dalla spiaggia: prologo e primo capitolo di L'anno di Ferro - Magisterium di Cassandra Clare e Holly Black!

Buongiorno lettori! Vi scrivo dalla spiaggia, sotto il sole cocente e il suono delle onde che sbattono sulla spiaggia nelle orecchie.
E STO LETTERALMENTE. USCENDO. FUORI. DI SENNO.
Perchè ho appena ricevuto dalla Mondadori via mail il prologo e il primo capitolo di L'anno di Ferro di Cassandra Clare e Holly Black, primo capitolo delle serie di cinque libri per ragazzi Magisterium.
Il libro uscirà il 9 settembre in America, mentre qui lo avremo i primi di novembre. Non sto più nella pelle e questo regalo mi ha resa così felice che non potevo non condividerlo con voi! Trovate tutto qui sotto!
Ps. Non so come verrà questo post, sono dal cellulare ed è la prima volta che scrivo e pubblico da qui. Non appena torno a casa vedrò di sistemarlo *occhiolino*

MAGISTERIUM. L’ANNO DI FERRO
Holly Black e Cassandra Clare
Traduzione di Beatrice Masini

PROLOGO
Da lontano, l’uomo che arrancava su per il fronte bianco del ghiacciaio poteva somigliare a una formica che zampetta lentamente sul bordo di un piatto. La baraccopoli di La Rinconada era una manciata di puntini sparsi molto più giù; il vento aumentava via via che lui saliva, soffiando sbuffi polverosi di neve sul suo volto e paralizzando i suoi ricci umidi e neri. Nonostante gli occhiali d’ambra, il suo volto era contratto in una smorfia per la luminosità del tramonto riflesso.
L’uomo non aveva paura di cadere, anche se non usava corde o ancoraggi, solo ramponi e una piccozza. Il suo nome era Alastair Hunt ed era un mago. Mentre saliva modellava e plasmava la materia gelata del ghiacciaio . Appigli per mani e piedi comparivano via via che avanzava a fatica.
Quando raggiunse la caverna, a metà del ghiacciaio, era mezzo congelato e del tutto sfinito per aver dedicato la propria forza di volontà a domare il peggiore degli elementi. Praticare la magia così a lungo gli risucchiava le forze, ma non aveva osato rallentare.
La caverna si apriva come una bocca nel fianco della montagna. Impossibile scorgerla da sopra o da sotto. Si issò oltre l’imboccatura e trasse un profondo respiro rauco, maledicendosi per non essere arrivato prima, per essersi lasciato ingannare. A La Rinconada la gente aveva visto l’esplosione e sussurrato interpretazioni sul suo significato: il fuoco dentro il ghiaccio.
Il fuoco dentro il ghiaccio. Doveva essere un segnale di emergenza… o un attacco. La caverna era piena di maghi, troppo vecchi o troppo giovani per combattere, feriti e malati, madri di bambini molto piccoli che non potevano essere lasciati soli: come sua moglie e suo figlio. Erano stati nascosti lì, in uno dei luoghi più remoti della terra.
Magister Rufus aveva insistito: altrimenti sarebbero stati vulnerabili, ostaggi della sorte, e Alastair si era fidato di lui. Poi, quando il Nemico della Morte non si era presentato per affrontare la rappresentante dei maghi (non ricordo se avevamo deciso la lectio “maghi” o “magi”: io preferirei la prima, meno evangelica), la giovane Makar sulla quale avevano concentrato tutte le loro speranze, Alastair aveva compreso il proprio errore. Si era precipitato a La Rinconada coprendo quasi tutta la distanza a dorso di un animale primitivo d’aria. Da lì aveva proseguito a piedi, dal momento che il controllo dei primitivi da parte del Nemico era imprevedibile e saldo. Più saliva, più la paura aumentava.
Fa’ che stiano tutti bene, ripeté tra sé mentre faceva il suo ingresso nella caverna. Ti prego, fa’ che stiano tutti bene.
Si sarebbe dovuto sentire il pianto dei bambini. Si sarebbe dovuto udire il ronzio basso delle conversazioni nervose e il borbottio della magia controllata. Invece c’era solo l’urlo del vento che spazzava la cima desolata della montagna. Le pareti della caverna erano di ghiaccio bianco, macchiato di rosso e bruno dove il sangue era schizzato e si era raggrumato. Alastair si tolse gli occhiali d’ambra e li lasciò cadere a terra, poi avanzò, aggrappandosi alle ultime stille di energia per restare diritto.
Le pareti emettevano un inquietante brillio fosforescente. Lontano dall’ingresso era la sola luce, e forse per questo inciampò nel primo corpo e quasi cadde in ginocchio. Si ritrasse con un urlo, poi trasalì sentendo il proprio grido tornare indietro in forma di eco. La maga caduta era carbonizzata, irriconoscibile, ma indossava il braccialetto di pelle con inchiodato il grosso pezzo di rame che la identificava come una studentessa del secondo anno del Magisterium. Non poteva aver avuto più di tredici anni.
Ormai dovresti essere abituato alla morte, si disse. Erano in guerra col Nemico da un decennio che a volte pareva un secolo. All’inizio era sembrato impossibile cheun solo giovane, seppure un potente mago Makar, si fosse proposto di sconfiggere la morte in persona. (nell’originale il concetto restava molto implicito, abbiamo sciolto un po’) Ma mentre il potere del Nemico cresceva, e il suo esercito di Creature del Caos aumentava, la minaccia era diventata sempre più atroce… ed era culminata in quello spietato massacro degli innocenti.
Alastair si alzò e si spinse più a fondo nella caverna, cercando disperatamente un volto fra tutti. Si fece strada oltre i corpi di anziani Magistri del Magisterium e del Collegium, figli di amici e conoscenti, maghi feriti in battaglie precedenti. Tra loro giacevano i corpi spezzati delle Creature del Caos, gli occhi turbinosi spenti per sempre. Anche se i maghi erano stati colti di sorpresa, dovevano aver reagito con forza per aver ucciso tanti soldati del Nemico. Con l’orrore che gli rimescolava le viscere, mani e piedi ormai insensibili, Alastair avanzò barcollando… finché la vide.
Sarah.
La trovò distesa sul fondo della caverna, contro una nebulosa parete di ghiaccio. Aveva gli occhi aperti, fissi sul nulla. Le iridi erano torbide e le ciglia incrostate di ghiaccio. Si chinò e le passò le dita sulla guancia fredda. Inspirò bruscamente, e il suo singhiozzo bucò l’aria.
Ma dov’era il loro figlio? Dov’era Callum?
Sarah stringeva nella destra un pugnale. Era abilissima nel plasmare i metalli recuperati dal profondo del suolo. Aveva forgiato lei quell’arma durante l’ultimo anno di Magisterium. Aveva un nome: Semiramis. Alastair sapeva che Sarah aveva molto cara quell’arma. Se devo morire, voglio morire stringendo il mio pugnale, gli diceva sempre. Ma lui non aveva voluto che morisse.
Sfiorò di nuovo con le dita la guancia gelida.
Un pianto lo fece voltare di scatto. In quella caverna traboccante di morte e silenzio, un pianto.
Un bambino.
Cercò affannosamente la fonte di quel flebile gemito. Sembrava arrivare da un punto più vicino all’ingresso. Tornò indietro di corsa, inciampando sui cadaveri, alcuni rigidi come statue, finché all’improvviso un altro volto familiare non lo fissò dalla carneficina.
Declan. Il fratello di Sarah, ferito nell’ultima battaglia. Sembrava essere stato soffocato a morte da una forma particolarmente feroce di magia d’aria; aveva il volto blu, gli occhi iniettati di sangue. Aveva un braccio teso, e sotto, protetto dal gelo del suolo da una coperta , c’era il figlio neonato di Alastair. Mentre lui lo fissava sbigottito, il bimbo aprì la bocca ed emise un altro debole gemito, quasi un miagolio.
Come in trance, tremante di sollievo, Alastair si chinò a raccogliere suo figlio. Il bambino lo guardò coi grandi occhi grigi e aprì la bocca per gridare di nuovo. La coperta cadde, e Alastair capì la ragione del pianto. La gamba sinistra del bambino penzolava in modo innaturale, come un ramo spezzato.
Alastair cercò di evocare una magia di terra per curare il bambino, ma aveva energia appena sufficiente per alleviargli un po’ il dolore. Col cuore in tumulto (cambiato per questione di registro), riavvolse stretto il bimbo nella coperta e tornò nel punto della caverna dove giaceva Sarah. Tenne il bimbo come se lei potesse vederlo e s’inginocchiò accanto al corpo di lei.
«Sarah» sussurrò, un nodo di lacrime in gola. «Gli dirò che sei morta per proteggerlo. Lo crescerò ricordando quanto sei stata coraggiosa.»
Gli occhi di lei lo fissarono, vuoti e pallidi. Strinse il bimbo più forte e si protese per sfilarle Semiramis dalla mano. Nel farlo notò che il ghiaccio accanto alla lama recava strani segni, come se l’avesse graffiato mentre moriva. Ma i segni erano troppo precisi. Si avvicinò e vide che erano parole – parole che sua moglie aveva inciso nel ghiaccio della caverna con le sue ultime forze, morendo.
Le lesse, e fu come ricevere tre colpi secchi nello stomaco.
UCCIDI IL BAMBINO
CAPITOLO UNO

Callum Hunt era una leggenda nella sua piccola città del North Carolina, ma non in senso buono. Celebre per la sua abilità nello smontare i supplenti con battute sarcastiche, era specializzato nell’irritare i direttori, i bidelli e gli inservienti della mensa. Gli psicologi scolastici, che partivano sempre animati dal desiderio di aiutarlo (la madre del povero ragazzo era morta, dopotutto), finivano per sperare che non si presentasse più davanti a loro. Era piuttosto imbarazzante non riuscire ad avere la risposta pronta per mettere al suo posto un dodicenne arrabbiato.
Il perenne cipiglio di Call, la chioma nera arruffata e i sospettosi occhi grigi erano ben noti ai suoi vicini. Amava andare sullo skateboard, anche se gli ci era voluto un po’ per impadronirsi della tecnica; diverse auto recavano ancora i segni dei suoi primi tentativi. Spesso lo si vedeva appostato fuori dalle vetrine del negozio di fumetti, della sala giochi e del negozio di videogame. Perfino il sindaco lo conosceva. Difficile dimenticarsi di lui, dopo che il giorno della Parata del Primo Maggio aveva eluso la sorveglianza del commesso del locale negozio di animali e rapito una talpa senza pelo destinata a finire nella pancia di un boa constrictor. Aveva provato pena per quella creatura cieca e rugosa dall’aria indifesa, e per amor di giustizia aveva liberato anche tutti i topi bianchi destinati a seguirla nel menu serale del serpente.
Non si era aspettato che i topi si precipitassero sotto i piedi della gente che sfilava, ma i topi non sono molto svegli. Non si era aspettato nemmeno che gli spettatori si dessero alla fuga davanti ai topi, ma nemmeno la gente è troppo sveglia, come aveva commentato più tardiil padre di Call. Non era colpa di Call se la parata era stata un disastro, ma tutti – sindaco in testa – si comportavano come se. In più, suo padre l’aveva costretto a restituire la talpa senza pelo.
Il padre di Call non approvava il furto.
A suo parere era una cosa spiacevole quasi quanto la magia.

°°°

Callum si dondolò sulla sedia rigida davanti allo studio del preside, chiedendosi se l’indomani sarebbe tornato a scuola, e se in caso qualcuno avrebbe sentito la sua mancanza. Ripassò ancora una volta tutti i modi per farsi bocciare al test dei maghi, e nel mondo più spettacolare possibile. Suo padre gli aveva elencato più e più volte le alternative per ottenere la bocciatura: Svuota la mente. Concentrati su qualcosa che sia il contrario di ciò che vogliono quei mostri. Pensa al test di un altro invece che al tuo. Call si strofinò il polpaccio, che quella mattina in classe gli aveva fatto male, ed era indolenzito; qualche volta gli succedeva. Più cresceva in altezza, più gli doleva. Almeno la parte fisica del test dei maghi – di qualunque cosa si trattasse – sarebbe stata facile da sbagliare.
Sentiva in lontananza gli altri ragazzi in palestra, le scarpe da ginnastica che scricchiolavano sul parquet lucido, le voci fragorose, gli insulti urlati. Gli sarebbe piaciuto giocare almeno una volta. Forse non era veloce come gli altri, o altrettanto capace di mantenere l’equilibrio, ma traboccava di irrefrenabileenergia. Era esonerato da educazione motoria per via della gamba; anche alle elementari, quando cercava di correre o saltare o arrampicarsi all’intervallo, uno dei bidelli si avvicinava per ricordargli che doveva darsi una calmata prima di farsi male, e che se continuava così l’avrebbero costretto a rientrare.
Come se qualche livido fosse la cosa più terribile che potesse succedere. Come se la gamba potesse peggiorare.
Call sospirò e guardò fuori dalle porte a vetro della scuola verso il punto in cui il padre sarebbe comparso a breve, in auto. Guidava un’auto del tipo che non passa inosservato, una Rolls-Royce Phantom del 1937 di colore argento chiaro. Nessun altro in città possedeva niente del genere. Il padre di Call aveva un negozio di antiquariato sulla MainStreet che si chiamava “Di Tempo in Tempo”; gli piaceva recuperare anticaglie e farle tornare nuove e splendenti. Per mantenere l’auto in perfetta efficienza doveva dedicare quasi tutti i finesettimana alle riparazioni. E chiedeva sempre a Call di lavarla e di passarvi una strana cera antiruggine.
La Rolls-Royce funzionava alla perfezione, a differenza di Call. Si guardò le scarpe da ginnastica tamburellando i piedi contro il pavimento. Quando portava i jeans, come quel giorno, non si capiva che la gamba aveva qualcosa che non andava, ma bastava che si alzasse e camminasse ed era evidente. Era stato sottoposto a moltissime operazioni fin da piccolissimo, e a terapie di ogni genere: niente di davvero efficace. Zoppicava ancora come se tentasse di reggersi in piedi su una barca che beccheggia.
Quando era piccolo giocava spesso a fare il pirata, o il marinaio coraggioso con una gamba di legno che affondava con la nave dopo un lungo cannoneggiamento. Giocava ai pirati e ai ninja, ai cowboy e agli esploratori alieni.
Ma giochi di magia, niente.
Mai.
Sentì il rombo di un motore e fece per alzarsi, ma poi tornò a sedersi, seccato. Non era l’auto di papà, ma una normalissima Toyota rossa. Un attimo dopo Kylie Myles, una delle sue compagne di classe, gli passò davanti correndo, un’insegnante al fianco.
«Buona fortuna per i provini di danza» le disse la signora Kemal, e si voltò per tornare in classe.
«Sì, grazie» disse Kylie, poi guardò Call in modo strano, come se lo stesse soppesando. Kylie non guardava mai Call. Era una delle sue caratteristiche, come i lucidi capelli biondi e lo zaino con l’unicorno. Quando s’incrociavano in corridoio il suo sguardo gli scivolava addosso come se fosse invisibile.
Con un mezzo saluto ancora più bizzarro e sorprendente andò verso la Toyota. Call vide entrambi i genitori di Kylie sui sedili davanti: avevano l’aria preoccupata. Non era diretta nello stesso posto, vero? Non poteva essere diretta alla Prova di Ferro. Ma se invece...
Si puntellò sulla sedia con le mani e si alzò. Se era là che andava, qualcuno avrebbe dovuto avvertirla.
Tanti ragazzi pensano che sia qualcosa di speciale, aveva detto il padre di Call, il disgusto evidente nella voce. Anche i loro genitori. Soprattutto nelle famiglie in cui le capacità magiche risalgono a parecchie generazioni indietro. E certe famiglie in cui la magia è quasi estinta vedono in un bambino magico la speranza di tornare al potere. Ma sono i bambini senza parentele magiche quelli da compatire più di tutti. Sono quelli che pensano che sarà come nei film.
Non è affatto come nei film.
In quel momento il papà di Call accostò al marciapiede della scuola in uno stridio di freni, impedendo a Call di vedere Kylie. Call uscì zoppicando: il tempo di raggiungere la Rolls e la Toyota dei Myles svoltò e sparì.
Impossibile metterla in guardia.
«Call.» Suo padre era sceso dall’auto e si appoggiava alla portiera del passeggero. La sua zazzera – lo stesso groviglio nero di Call – si stava facendo grigia ai lati, e portava una giacca di tweed con le toppe di pelle, nonostante il caldo. Call era convinto che il padre somigliasse a Sherlock Holmes nella vecchia serie tv della BBC; a volte la gente si stupiva che non parlasse con l’accento inglese. «Sei pronto?»
Call alzò le spalle. Come si fa a essere pronti per qualcosa che potrebbe sconvolgerti la vita, se va storto? O dritto, nel suo caso. «Suppongo di sì.»
Il padre aprì la portiera. «Bene. Sali.»
L’interno della Rolls era immacolato come la carrozzeria. Call fu sorpreso di vedere le vecchie stampelle sul sedile di dietro. Non le usava da anni, da quando era caduto da una struttura per arrampicarsi e si era slogato la caviglia – quella del piede buono. Il padre di Call salì e accese il motore. Call le indicò e disse: «E quelle?»
«Più hai l’aria malandata, più è probabile che ti boccino» disse cupo il padre, guardandosi indietro mentre uscivano dal parcheggio.
«È un po’ come imbrogliare» osservò Call.
«Call, la gente imbroglia per vincere. Non si può imbrogliare per perdere».
Call sgranò gli occhi e lasciò che papà pensasse quello che voleva. Sapeva soltanto che non avrebbe assolutamente usato quelle stampelle se non era costretto. Ma non voleva parlarne, non nella stessa giornata in cui il padre aveva carbonizzato il pane tostato a colazione, cosa insolita, e lo aveva strapazzato quando si era lamentato di dover andare a scuola per uscirne solo due ore dopo.
Ed eccolo lì, chino sul volante, la mascella serrata, le dita della mano destra che stringevano la leva del cambio in una morsa e scalavano le marce con inutile violenza.
Call cercò di concentrarsi sugli alberi che cominciavano a ingiallire, sforzandosi di ricordare tutto ciò che sapeva del Magisterium. La prima volta che suo padre aveva parlato dei Magistri e di come sceglievano gli apprendisti aveva fatto sedere Call in una delle grandi poltrone di pelle dello studio. Call aveva il gomito bendato e il labbro spaccato per via di una zuffa a scuola, e non aveva proprio voglia di ascoltare.
E poi il padre era così serio da spaventarlo. E dal tono che aveva assunto sembrava che dovesse annunciargli che aveva una malattia terribile. Si scoprì che la malattia era il suo potenziale magico.

Call si era fatto piccolo piccolo nella poltrona mentre il padre parlava. Era abituato a sostenere il ruolo della vittima; gli altri ragazzi erano convinti che per via della gamba fosse un bersaglio facile. Di solito riusciva a convincerli del contrario. Non quella volta in cui un gruppo di ragazzi più grandi l’aveva bloccato dietro il capanno vicino al parco giochi, sulla strada di casa. L’avevano spintonato e aggredito coi soliti insulti. Callum aveva imparato che molti si facevano indietro se lui reagiva, così aveva cercato di colpire il ragazzo più alto. Era stato il suo primo errore. Ben presto l’avevano inchiodato a terra: uno gli sedeva sulle ginocchia mentre l’altro lo prendeva a pugni in faccia, cercando di costringerlo a scusarsi e ad ammettere di essere un pagliaccio storpio.
«Dovete ammettere che sono stupendo, sfigati» aveva sospirato Call prima di svenire.
Era rimasto privo di sensi per non più di un minuto, perché quando aveva riaperto gli occhi aveva visto i ragazzi che si allontanavano. Fuggivano. Call non poteva credere che la sua battuta si fosse rivelata così efficace.
«Proprio così» aveva detto, mettendosi seduto. «Fate bene a scappare!»
Poi si era guardato intorno e si era accorto che il cemento del campo giochi era spaccato. Una lunga fessura correva dalle altalene fino alla parete del capanno dividendo in due il piccolo edificio.
Era disteso proprio nel bel mezzo di quello che sembrava lo squarcio provocato da una scossa di terremoto.
La cosa più straordinaria che gli fosse mai successa.
Suo padre non era d’accordo. «La magia scorre in certe famiglie» disse. «Non tutti i consanguinei ce l’hanno per forza, ma a quanto pare tu potresti averla. Purtroppo. Mi dispiace tanto, Call.»
«Ma allora il terremoto…. Stai dicendo che l’ho provocato io?» Call si era sentito combattuto tra una gioia attonita e un profondo terrore, ma la gioia era più forte. Sentì gli angoli della bocca arricciarsi in un sorriso e cercò di tenerli a bada. «È questo che fanno i maghi?» 
«I maghi attingono agli elementi – terra, aria, acqua, fuoco, e perfino il vuoto, che è la fonte della magia più potente e terribile di tutte: la magia del caos. Sanno usare la magia per molte cose, compreso squarciare la terra, come hai fatto tu.» Suo padre aveva annuito tra sé. «All’inizio, quando la magia si manifesta per la prima volta, è molto intensa. Potere allo stato grezzo… ciò che educa le arti magiche è l’equilibrio. Ci vuole molta applicazione per ottenere il potere di un mago appena destato. I maghi giovani hanno scarso controllo. Call, tu devi contrastare la magia. Non devi mai più farne uso. O i maghi ti porteranno via nei loro tunnel.»
«È là che si trova la scuola? Il Magisterium è nel sottosuolo?» aveva chiesto Call.
«Sepolto sottoterra, dove nessuno può trovarlo» gli aveva detto il padre, serissimo. «Laggiù non c’è luce. Niente finestre. È un labirinto. Ci si può perdere nelle caverne, ci si può morire senza che nessuno lo sappia mai.»
Call si leccò le labbra all’improvviso secche. «Ma tu sei un mago, vero?»
«Io non uso la magia da quando è morta tua madre. E non la userò mai più.»
«E la mamma è andata là? Nei tunnel? Sul serio?» Call era avido di informazioni su sua madre. Non aveva mai saputo molto. Qualche foto ingiallita in un vecchio album che mostrava una donna graziosa con i capelli nero inchiostro di Call e gli occhi di un colore indefinibile. Sapeva che non doveva fare al padre troppe domande su di lei. Il padre non ne parlava mai se non era costretto.
«Sì, c’è andata» gli disse quella volta. «Ed è per via della magia che è morta. Quando i maghi vanno in guerra, e succede spesso, non badano a chi muore per questo. Ed è l’altra ragione per cui non devi attirare la loro attenzione.»
Quella notte Call si svegliò urlando, convinto di essere imprigionato nel sottosuolo, con la terra che gli si accumulava addosso come se lo seppellissero vivo. Per quanto si agitasse, non riusciva a respirare. Poi sognò che fuggiva da un mostro di fumo con gli occhi che roteavano in un miscuglio di migliaia di diversi spaventosi colori… solo che non riusciva a correre abbastanza veloce per via della gamba. Nei sogni se la trascinava appresso come morta finché lui cadeva a terra, l’alito bollente del mostro sul collo.
I compagni di classe di Call avevano paura del buio, del mostro sotto il letto, degli zombie o degli assassini armati di asce giganti. Call aveva paura dei maghi, e aveva ancora più paura di essere uno di loro.
Ora stava per incontrarli. Gli stessi maghi che erano la ragione per cui sua madre era morta e suo padre non rideva quasi mai e non aveva amici, e invece stava chiuso nel laboratorio che aveva ricavato dal garage e riparava mobili sconquassati, auto e gioielli. Non ci voleva un genio per capire come mai suo papà aveva l’ossessione di rimettere in sesto le cose rotte.
Sorpassarono un cartello che dava loro il benvenuto in Virginia. Era tutto uguale. Non sapeva che cosa aspettarsi, ma di rado era uscito dal North Carolina. I loro viaggi oltre Asheville erano rari, e le destinazioni più frequenti erano i mercatini in cui recuperavano vecchi pezzi di pezzi d’auto e le fiere dell’antiquariato, dove Call vagava tra cataste di argenteria brunita, collezioni di figurine del baseball nelle loro custodie di plastica e strane teste di yak imbalsamate, mentre suo padre contrattava per aggiudicarsi qualcosa di noioso.
A Call venne in mente che se non fosse stato bocciato al test forse non sarebbe mai più andato di nuovo a uno di quei mercatini. Il suo stomaco si contrasse e un brivido freddo gli  percorse le ossa. Si costrinse a pensare ai precetti che il padre gli aveva instillato: Svuota la mente. Concentrati su qualcosa che sia il contrario di ciò che vogliono quei mostri. Pensa al test di un altro invece che al tuo.
Espirò lentamente. Il nervosismo del padre lo stava contagiando. Sarebbe andata bene. Era facile sbagliare il test.
L’auto uscì dall’autostrada e imboccò una via stretta. L’unico cartello presente recava il simbolo di un aeroplano, e sotto c’era scritto CAMPO VOLO CHIUSO PER LAVORI.
«Dove andiamo?» chiese Call. «Si vola da qualche parte?»
«Speriamo di no» borbottò suo papà. Il fondo stradale era passato bruscamente dall’asfalto alla terra battuta. Mentre coprivano sobbalzando qualche altro centinaio di iarde, Call si aggrappò allo sportello per evitare di battere la testa contro il tetto. Le Rolls-Royce non sono fatte per le strade sterrate.
All’improvviso la corsia si allargò e gli alberi si separarono. La Rolls si trovava in un ampio spiazzo sgombro. Nel mezzo c’era un enorme hangar di acciaio ondulato. Parcheggiate intorno un centinaio di auto di tutti i generi: dai vecchi pickup malridotti alle berline eleganti quasi quanto la Phantom, e molto più nuove. Call vide genitori e ragazzi, tutti più o meno della sua età, correre verso l’hangar.
«Credo che siamo in ritardo» disse.
«Bene» disse padre con cupa soddisfazione. Fermò l’auto e scese, accennando a Call di fare lo stesso. Call fu contento di vedere che il padre sembrava essersi scordato delle stampelle. Era una giornata calda, e il sole bruciava sul dorso della t-shirt grigia di Call. Si asciugò i palmi umidi sui jeans mentre attraversavano lo spiazzo per infilarsi nel grosso buco nero che era l’ingresso dell’hangar.
Dentro era tutto assurdo. Ragazzini ovunque, voci rimbombanti nel vasto spazio. Lungo una parete di metallo erano disposte delle gradinate; potevano ospitare molte più persone di quelle presenti, ma l’immensità del luogo le rendeva lillipuziane. Col nastro adesivo azzurro vivo erano stati fatti dei segni sul pavimento di cemento, una serie di X e di cerchi.
Dalla parte opposta rispetto alle gradinate, davanti a una serie di portoni che un tempo dovevano aprirsi per lasciar uscire gli aerei lungo le piste, c’erano i maghi.

L'avevo giá letto in inglese, ma avere la nostra traduzione ufficiale è sicuramente un buon segno. Che ne pensate?

10 commenti:

  1. Penso che sarà impossibile non leggerlo >_< Già il nome Clare è una garanzia e con questo prologo la mia curiosità è a mille!

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    1. Esatto! Solo per il fatto che c'è lei di mezzo.. e anche la Black non scherza, non sono amiche mica per caso ;3
      Non vedo l'ora che arrivi *^*

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    2. Della Black ho letto solo "I segreti di Coldtown" e ho il lista "Doll Bones" ma non avevo realizzato ne che fossero la stessa autrice ne che è sempre lei a scrivere a quattro mani con la Clare. Grazie Bliss, ora lo aspetto con il doppio dell'aspettativa XD

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    3. Idem, e vorrei leggere anche la vecchia trilogia sulle fate :3
      Davvero? E' proprio lei! E insieme sono una coppia straordinaria :) Figurati, sono qui per questo, e attendo questo libro con lo stesso ardore *^*

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  2. Solo quattro piccole parole. IO. VOGLIO. QUESTO. LIBRO. Così, giusto per essere chiari xD (in ogni caso credo che lo comprerò in lingua originale. Chissà che magari essendo dedicato a giovani lettori la lingua non sia più semplice...)

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    1. Ahahahah più chiari delle lettere maiuscole non si può xD Anche io, comunque *^* Non vedo l'ora che esca c': Io sono sicura di prenderlo in lingua originale! Avevo già letto questi primi due capitoli in lingua, e a parte qualche difficoltà all'inizio non mi è sembrato impegnativo :)

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  3. ME VOLERE - VOLERE - VOLERE. *---*
    Ho deciso che dedicherò un ripiano della mia libreria (uno solo???? ma anche due, tre o quattro... okay, tutta) a queste due fantastiche donne. *O*
    Uh, volevo dirti che ho iniziato COHF, mi avvicino alle duecento pagine. *che la forza sia con me*

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    1. *^*
      Ahahahah non sono sicura che in uno solo ci entrino tutti i loro libri. Facciamo cinque o sei? Figurati che io ho un reparto interamente dedicato alla Clare, e ho già destinato tre spazi vuoti in cui metterò le sue prossime tre serie *^* ekjpwejkpoqkeropk
      Vaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaai!!! Oddio, buona fortuna!! Sono con te!

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  4. Bello bello bello!!! Non vedo l'ora che esca!!!

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